Al crocevia di quattro Regioni c’è un territorio ancora in gran parte da conoscere e esplorare. I Colli Tortonesi si presentano come un paesaggio complesso e variegato in cui la bellezza di una natura selvaggia ed incontaminata fa da scenografia a luoghi dove piccole strade di campagna, pievi, filari di vite, campi arati soleggiati e verdi boschi sono l’emblema di un mondo che ancora sopravvive con ritmi e tempi ben lontani dal nostro vivere quotidiano.
Millenni di storia hanno lasciato impresse sui Colli Tortonesi numerose tracce che riportano ad un passato antico e glorioso. Un salto indietro nel tempo ci conduce alla preistoria: l’imponente rupe di Guardamonte in Val Curone, oggi area archeologica, è stata testimone dei primi insediamenti umani in queste zone, a conferma della tendenza dell’uomo primitivo ad abitare le vette anziché la pianura…
E’ tuttavia in età romana, soprattutto nel periodo imperiale, che il territorio con Dertona diventa un nodo centrale per i commerci grazie alla sua posizione strategica.
Le numerose pievi, assai frequenti nei Colli Tortonesi, splendide nella loro elegante semplicità, sono l’emblema dell’intensa vita spirituale che in età medioevale ha attraversato queste valli.
I castelli che dominano i Colli Tortonesi e che spesso si incontrano percorrendo le Valli esprimono ancora oggi con la loro imponenza il potere che alcune nobili famiglie hanno esercitato su questo territorio: i Frascaroli, i Malaspina, i Fieschi e i Doria.
Le morbide colline che abituano lo sguardo a verdi distese di boschi e vigneti, lasciano sempre intravedere in prospettiva le cime delle vette appenniniche che fanno da sfondo ai Colli Tortonesi.
I monti Ebro, Giarolo e Chiappo rappresentano le vette più imponenti di questa porzione d’Appennino. Tra le radure di fitti boschi di castagno o di rovere fanno talvolta la loro comparsa i calanchi, soprendenti coni di argilla dall’aspetto quasi lunare.
La variegata vita animale che popola il sottobosco è fatta di scoiattoli, volpi, cinghiali, caprioli e di varie specie di volatili che trovano, nel clima temperato di queste valli, il loro habitat ideale.
Da secoli l’attività predominante nei Colli Tortonesi è l’agricoltura. Un mondo rurale ancora profondamente radicato ai ritmi e ai valori della campagna, L’alternarsi delle stagioni, i tempi della semina e del raccolto, fanno parte di un sapere tradizionale che si conserva col passare delle generazioni…
Nelle distese di vigneti e campi coltivati si legge la fecondità di una terra generosa che non manca di rinnovare con l’uomo un’antica alleanza da cui si ricavano i migliori frutti: vini d’eccellenza e prodotti di qualità…
Chi visita i Colli Tortonesi scopre ben presto un territorio tutto da “assaggiare”. Dai Salumi di ottimo impasto al celebra Montebore, antico formaggio di produzione locale, divenuto oggi presidio Slow Food. Nei Baci di Dama si tocca l’eccellenza della produzione locale. Tra le molte altre tipicità di questo territorio vi sono diverse specie di frutti: la pesca, particolarmente pregiata quella di Volpedo, le mele, le fragole, le ciliegie. Un discorso a parte merita la profumatissima “Fragola profumata di Tortona” il cui passato glorioso sopravvive ancora oggi grazie alla coltivazione di pochi ma affezionati produttori. La bassa Valle Scrivia assicura alcuni prodotti d’eccellenza con patate, cipolle, sedano, aglio e melone. Un particolare cenno al mais ottofile, tradizionale tipo di mais autoctono, un tempo utilizzato per la produzione della polenta, oggi restituito alla coltivazione locale.
Ma il prodotto d’eccellenza del territorio rimane il vino. Il rosso Barbera, il prezioso Dolcetto, l’antico Derthona Timorasso ed il bianco Cortese con la Bonarda, il Moscato, la Croatina e la Favorita sono apprezzati dai migliori intenditori e li troviamo sempre più presenti sulle migliori tavole sia in Italia che all’estero.
A piedi, in bicicletta, a cavallo: qualunque sia la modalità che sceglierete per visitare i Colli Tortonesi, in ogni caso sarà certamente un’esperienza indimenticabile…gli ombrosi sentieri che si snodano sulle colline e attraverso i boschi offrono l’opportunità di fare piacevoli passeggiate immersi nel silenzio di una natura interamente da esplorare. Per gli amanti della bicicletta è possibile ripercorrere le strade che videro vincente il Campionissimo Fausto Coppi di cui celebra costantemente il mito.
Le verdi colline circondate di montagne rappresentano l’ambiente ideale per un altro sport che i Colli Tortonesi permettono di praticare in tutto relax e in una cornice straordinaria: il golf.
Il Dongione di Carbonara Scrivia
Risalirebbe al XIV secolo o primi anni del XV secolo, sulla base di ciò che riportano alcuni documenti ritrovati.
La tipica costruzione, definita ‘dongione’, venne costruita da Pierino Cameri su una precedente di proprietà dalla famiglia Curolo, signori di Carbonara, i quali ebbero declino a partire dal 1246.
A quell’epoca, il sistema difensivo di Carbonara Scrivia comprendeva, oltre il dongione, un recinto fortificato o castello, con fossato e due porte di accesso. All’interno del recinto vi era un pozzo.
A metà del Quattrocento il maniero, che guardava alle vigne del Monferrato, passò ai Guidobono Cavalchini che lo mantennero fino agli anni ’80 del Novecento, per poi donarlo al Comune di Carbonara Scrivia.
La rocca, così come il castello di cui oggi non rimane alcuna traccia, fu più volte distrutta e ricostruita.
Nel 1828 un forte terremoto la rovinò e qualche anno più tardi l’ultimo e definitivo crollo del tetto danneggiò ulteriormente e in modo grave la costruzione.
Il dongione alterna esternamente, nel muro a scarpa, mattoni e pietra. Due torri pensili a rinforzare la cortina muraria sono collegate da un camminamento aggettante su beccatelli e caditoie.
La rocca conserva chiare tracce del passato medievale: struttura quadrangolare, alta e massiccia, il cui scopo era sicuramente difensivo con limitato uso di aperture e pressochè privo di elementi decorativi. In origine non vi era alcuna apertura, quelle esistenti sono di recente costruzione, forse ottocentesca: vi si accedeva dagli edifici adiacenti direttamente al primo piano.
Il piano terreno aveva soffitto a volte le cui spinte potrebbero essere state raccolte da un’infilata di colonne. Il piano superiore presentava un soffitto a travatura che sosteneva il tetto.
È stato completamente ristrutturato nel 2008 ed è visitabile su autorizzazione comunale.
La Via Aemilia Scauri
La Via Aemilia Scauri è una strada romana fatta costruire dal censore Marco Aurelio Scauro nel 109 A.C.
Secondo la testimonianza del geografo Strabone, la via raggiungeva Vada Sabatia l’odierna Vado Ligure, presso Savona, partendo da Luna (Luni): essa non costituiva la prosecuzione della Via Aurelia, che si fermava a Pisa, ma integrava i collegamenti viari terrestri tra Roma e le Gallie verso la Liguria di levante e di ponente.
La Via Aurelia, all’epoca, terminava a Pisa, dopo essere stata prolungata da Vada Volaterrana (punto d’arrivo della strada costruita nel 239 a.C. dal censore Aurelio Cotta); cosicchè per proseguire da Pisa verso la Liguria, cioè verso le basi marittime di Luni, Genova e Marsiglia i Romani erano costretti ad ‘andar per mare’ con la tecnica detta del ‘piccolo cabotaggio’ (cioè lungo costa a portata di eventuali approdi visibili) o deviare per la via Clodia lungo il Forum Clodii cioè lungo il vecchio percorso del Serchio nel mezzo della Garfagnana.
Per collegare Roma a Genova o Marsiglia (l’antica Massalia), i Romani passavano via terra da Pisa e Lucca verso Piacenza, poi verso le valli Piemontesi, di qui, riattraversando l’Appennino Ligure, sfociavano alternativamente o a Genova o a Vada Sabatia (Vado Ligure).
La Via Aemilia Scauri risponde all’esigenza dei Romani di stabilizzare i collegamenti con la base-colonia di Luni e di qui (usando toponimi attuali) con Piacenza, Tortona, Vado Ligure ed infine Marsiglia.
Il collegamento diretto lungo costa tra Pisa e Luni era reso impossibile da due fattori fondamentali: la presenza delle paludi versiliesi, anticamente dette Fossae Papirianae, lungo la costa marittima e la presenza degli scomodi Apuani (più noti a quel tempo come Sengauni o Liguri Montani) sui crinali di monti circostanti (Alpi Apuane).
Il collegamento tra Tortona e il mare
La strada, partendo da Vada Sabatia risaliva la val Quazzola (dove si conservano i resti di diversi ponti in muratura, per tradizione originariamente 7, di cui 2 ancora in uso in località Volte ed in località Ricchini), oltrepassava lo spartiacque al Colle di Cadibona, il più agevole valico dell’intera dorsale alpino-appenninica posto a soli m 456 di quota. Da qui seguiva l’asta della Bormida di Spigno, toccando i vici di Canalicum (forse presso Cairo Montenotte) e di Crixia (forse Spigno Monferrato, secondo altri presso Piana Crixia) fino ad Aquae Statiellae (Acqui Terme), da cui una diramazione si distaccava verso Alba Pompeia (Alba). Da Acqui, infine, la strada raggiungeva Dertona (l’odierna Tortona). Solo nel 2008 è stata ritracciata interamente nel percorso tra Tortona e Acqui Terme. Il ritrovamento archeologico è avvenuto nel corso di un sorvolo aereo di alcuni siti archeologici dell’antica città romana di ‘Aquae Statiellae’ (attuale Acqui Terme): è stata così ritrovata la sede stradale. dell’antica arteria nel tratto che collegava l’antica ‘Dertona’.
La Mitica ripercorrerà 4 Km tutti in sterrato della Via Aemilia Scauri appena dopo l’attraversamento di Pozzolo Formigaro.
CASTELLO DI POZZOLO FORMIGARO
Cenni storici
Le prime notizie di Pozzolo risalgono al sec. X, entrò ben presto nell’orbita del comune di Tortona e fu da essa fortificato alla fine dell’XI sec.
Fu conquistato, con Tortona, nel 1155, dal Barbarossa. Passato nel XIII secolo tra i domini dei marchesi del Bosco, ritornò nuovamente ai tortonesi. Successivamente Pozzolo rimane al centro delle contese tra i Visconti di Milano e il Monferrato.
Ai Visconti si deve la fortificazione del borgo di fine del XIV sec. Durante la guerra tra Milano e il Monferrato nel 1452 il castello viene distrutto dalle bombarde di Colleoni. L’anno successivo Bartolomeo Colleoni lo fa ricostruire dall’ing. Giovanni da Sale dandogli l’attuale aspetto in cui si riconoscono elementi architettonici sforzeschi sovrapposti a motivi viscontei.
Nel 1527 fu venduto al genovese Domenico Sauli. Alcuni discendenti dei Sauli per due secoli risiedettero nel castello. Passò, poi, alla famiglia Scaglia e da questa, grazie ad un matrimonio, ai marchesi Morando.
L’ultimo Morando lo lasciò in eredità al figliastro avvocato G.Battista Oddini che lo donò al Comune di Pozzolo Formigaro. Il Castello è, oggi, sede del Municipio.
Un tempo, era munito di ponte levatoio e postierla: sono ancora intatte le feritoie per i bolzoni. Anticamente il mastio era isolato dagli altri corpi di fabbrica. L’arco posteriore, che dà accesso al cortile, era protetto da una poderosa grata di ferro. La botola al centro del voltone serviva ai difensori per salire, con scale retrattili, ai piani superiori, dopo aver alzato il ponte levatoio carraio e quello pedonale, e dopo aver calato la saracinesca; poteva avere anche la funzione di trabocchetto. La torre, un po’ arretrata rispetto al filo degli spalti è ruotata leggermente in senso antiorario. Dietro ai merli correva il camminamento di ronda, provvisto di caditoie su beccatelli. Un tempo solamente una passerella, pensile e retrattile, consentiva il passaggio dal mastio al corpo di fabbrica centrale. In seguito fu aggiunto un corridoio di disimpegno; rimaneggiamento che ha sacrificato la cortina merlata e la scala esterna che portava dal ‘cortile d’onore’ al piano nobile.
L’ala signorile seicentesca dietro il palazzo fu aggiunta dai Sauli.
Caratteristiche della visita
Si visitano le principali sale del castello, oggi adibito a Municipio.
Nella sala consiliare si conservano cinque fucili ad avancarica della Guardia Nazionale (1848) e gli Affreschi di Franceschino Boxilio e scuola (Madonna con Bambino, Santa Lucia, San Biagio, San Francesco), del sec.XV, strappati dalla Chiesa di Nostra Signora delle Ghiare.
Della medesima provenienza sono la grandi tele con San Bovo e una curiosa scultura di legno policromo: una Madonna con Bambino che racchiude in seno il Redentore assiso con la Croce; all’interno delle ante due angeli in adorazione del Cristo (sec. XV).
Il salone di rappresentanza custodisce una suggestiva Natività del ‘700; un ritratto del canonico Bottazzi, opera di Tirso Capitini; un ritratto del Marchese Morando, uno di gentiluomo e uno di gentildonna; un grande medaglione con fotografia di G.B.Oddini.
Al piano inferiore è stata ricomposta una Tomba Romana a pozzetto per incinerazione (II sec. d.C.) corredata di una lucerna fittile con marchio FORTIS; fu rinvenuta nel 1958 in località Zinzini, non lontano dalla Via ‘Aemilia Scauri’.
Tortona
Tortona corrisponde all’antica Dertona (nel basso impero Terdona), città dei Liguri.
La fondazione di Tortona si ricollega probabilmente alla costruzione nel 148 a.C. della Via Postumia, fra Piacenza e Genova. Dopo la completa conquista della Cispadania fu fatto partire da Tortona nel 109 a.C. un tronco di strada per Aquae Statiellae (Acqui Terme) e Vada Sabatia (Vado Ligure); più tardi un altro tronco per Hasta (Asti), Augusta Taurinorum (Torino) e le Alpi.
Luoghi di interesse
Abbazia di Rivalta Scrivia
La chiesa di Rivalta è quanto resta del complesso abbaziale dei monaci cistercensi, insediatisi in questa località nel 1180.
L’edificio presenta una caratteristica architettura cistercense tra il romanico lombardo e il gotico francese. L’elemento importante è rappresentato dall’apparato di affreschi risalenti alla seconda metà del secolo XV, recuperati durante i restauri del 1941-42.
A fianco dell’abbazia, alla metà del XVII, fu edificata un’imponente residenza nobiliare di cui si possono ammirare gli ampi loggiati. L’abbazia, la cui chiesa era parrocchia già nel 1576, viene soppressa con decreto napoleonico nel 1810.
Orari di visita: domenica dalle 15.30 alle 18.30 (da aprile a ottobre).
Duomo
Sorge sull’antica chiesa di S. Quirino.
Fu edificato tra il 1574 e il 1592 seguendo le indicazioni architettoniche borromaiche e fu officiato a partire dal 1583. La facciata neoclassicheggiante, progettata dall’architetto Nicolò Bruno, risale al 1880. L’interno fu restaurato negli anni 1935-39.
Conserva opere del Fiamminghino, del Luini, del Moncalvo, di Camillo Procaccini e del Vermiglio. Pregevole l’altare maggiore, della metà del XVIII secolo, e gli altari in marmo di scuola genovese. Le volte furono affrescate dai Maggi di Sannazzaro tra il 1853 e il 1856. Nel presbiterio è l’urna di S. Marziano martire, primo vescovo e patrono della Diocesi di Tortona; lungo le navate laterali vi sono sepolcri vescovili e la tomba del compositore Lorenzo Perosi.
Chiesa di Santa Maria dei Canali
Esempio di stile romanico. È documentata dal 1151, anche se l’edificio attuale risale al XI-XII secolo con l’aggiunta, nella seconda metà del XVI secolo, dell’abside rettangolare e delle cappelle laterali. E’ la chiesa più antica che si conserva in città; purtroppo ha subito molti rimaneggiamenti e insieme ai caratteri romanici originali presenta anche elementi gotici.
La facciata a capanna è frutto del restauro condotto nel 1853. L’interno, che conserva tracce di affreschi del XV secolo, fu decorato dal pittore Rodolfo Gambini nel 1918.
Tra i dipinti sono presenti opere del Fiamminghino (XVII sec.), del Brandimarte della Torre (XVI sec.), del Vermiglio (XVII sec.) e del Gambini (XX sec.). Di notevole interesse è una Natività di scuola leonardesca (XVI sec.).
Santuario della Madonna della Guardia
Il Santuario della Madonna della Guardia fu voluto da San Luigi Orione sul luogo dove sorgeva l’antica chiesa di San Bernardino (fine secolo XVI – metà XIX secolo), costruita, a sua volta nei pressi di un pilastro dove era stata dipinta l’immagine della Vergine.
Il 23 ottobre 1926 fu posta la prima pietra alla presenza del cardinale Carlo Perosi. I lavori iniziarono nell’aprile 1928 e furono portati a termine il 28 agosto 1931 con l’inaugurazione solenne fatta dal vescovo tortonese Simon Pietro Grassi.
“Il Divisionismo” Pinacoteca – Fondazione C.R. Tortona
“Il Divisionismo” è uno spazio museale che si propone di documentare una stagione di significativa importanza dell’arte italiana tra Ottocento e Novecento attraverso la varietà e l’originalità dei linguaggi pittorici utilizzati non solo dai grandi maestri divisionisti, ma da personaggi che hanno dato voce a culture per così dire periferiche per lungo tempo sottovalutate.
Il percorso espositivo risulta incentrato intorno al fertile dialogo tra i diversi interpreti di una tecnica audace che ha saputo rappresentare le istanze di un secolo nuovo: dagli artisti socialmente impegnati degli anni Novanta dell’Ottocento fino agli approcci empirici in ambito simbolista e ai primi saggi dei protagonisti della rivoluzione futurista per i quali la tecnica divisionista costituiva il linguaggio della modernità.
A capolavori, quali Mattino di maggio e Fiore reciso di Giuseppe Pellizza, Piazza Caricamento, Il golfo di Genova, Lo sciopero, Mattino in officina e Ulivi ad Albaro di Plinio Nomellini, Mi ricordo quand’ero fanciulla (Entremets) e Incensum Domino! di Angelo Morbelli, Il seminatore e Ultimi pascoli di Carlo Fornara, La venditrice di frutta (Ona staderada) di Emilio Longoni, La raccolta del fieno di Giovanni Segantini, La via del Calvario e Adorazione dei Magi di Gaetano Previati, Quando gli uccelletti vanno a dormire di Vittore Grubicy e Paesaggio di Giacomo Balla, si legano e si confrontano importanti opere di notevole originalità di firme meno conosciute, come Benvenuto Benvenuti, Galileo Chini, Giuseppe Cominetti, Giovanni Battista Crema, Camillo Innocenti, Giorgio Kienerk, Enrico Lionne, Llewelyn Lloyd, Baldassarre Longoni, Guglielmo Amedeo Lori, Serafino Macchiati, Cesare Maggi, Giuseppe Mentessi, Rubaldo Merello, Matteo Olivero, Attilio Pusterla, Gino Romiti, Angelo Torchi.
Info e Orari
Esposizione permanente: Palazzetto medievale Corso Leoniero, 2 Tortona (AL)
Orari apertura:
Sabato e Domenica 15.00 – 19.00
Giorni feriali su appuntamento
Chiusura Natale e Capodanno. Ingresso gratuito.
Informazioni e prenotazioni: Fondazione C.R. Tortona Tel. 0131.822965
www.fondazionecrtortona.it info@fondazionecrtortona.it
Visite guidate:
Tutti i giorni, su prenotazione, per gruppi e scolaresche, massimo 25 partecipanti per gruppo. Visita gratuita per le scolaresche.
Laboratori didattici: Tutti i giorni, su prenotazione, massimo 25 alunni per gruppo. Attività didattiche per le famiglie su prenotazione il Sabato e la Domenica.
Plinio Nomellini, Piazza Caricamento (1891)
(olio su tela, cm. 120 x 160, Pinacoteca “Il Divisionismo” – Fondazione C.R. Tortona)
Dopo il periodo fiorentino e l’alunnato presso Fattori, Plinio Nomellini, che già si era distinto sul finire degli anni Ottanta per l’interesse alle tematiche sociali in alcune sue opere, manifesta la volontà di abbandonare la tecnica macchiaiola per un linguaggio rinnovato su esempi stranieri, francesi in specie, di cui si era fatto portatore e interprete il pittore Alfredo Muller come lui presenta alle Esposizioni annuali della Promotrice fiorentina.
Nomellini si trasferisce a Genova, città ricca di fermenti culturali e sociali dove le sue ricerche si concretano in alcuni capolavori assoluti tra cui Piazza Caricamento del 1891, esposto quell’anno stesso alla Prima Triennale di Belle Arti di Milano.
Gli anni Novanta dell’800 vedono in varie città d’Italia prevalentemente in quelle del triangolo industriale Milano, Torino, Genova, il formarsi di un’ideologia socialista venata a vario titolo di fermenti anarchici che culminerà nella grande fiammata del ’98.
In questo clima fervido, ancora animato di speranze, Nomellini esprime con il concreto vitalismo la piena adesione al sentire del proletariato. A parte la tematica, è la pennellata, rapida e nervosa, a tratti quasi vorticosa, una sorta di divisionismo sui generis, il mezzo di cui l’artista si serve per organizzare in una successione di piani ed in profondità lo spazio ampio e complesso di un luogo carico di storia e di vita qual è Piazza Caricamento e per catturare la luce volutamente avara di un qualsiasi giorno di lavoro e fatica.
Gaetano Previati, L’adorazione dei magi, (1890-1894)
(olio su tela, cm. 58,8 x 131, Pinacoteca “Il Divisionismo” – Fondazione C.R. Tortona)
Grande interprete della pittura divisionista, una tecnica che adottava la divisione dei colori per esaltare la luminosità della visione, e, nella particolare accezione proposta da Previati, intendeva regolarne l’interna musicalità, secondo la variazione controllata dell’intensità tonale e l’andamento della pennellata, trasponendone la chiave da una simulazione reale alla introduzione di una luminosità spirituale. Della tecnica divisionista fu teorico con importanti opere di divulgazione nel primo decennio del Novecento.
Abitualmente Previati rielabora uno stesso tema, in particolare quello religioso, provando varie tecniche e colori diversi, anche in un breve volgere di anni.
Non sempre la critica colse l’impegno e l’afflato spirituale alla base di questo procedimento sebbene individuasse da subito ne “L’adorazione dei Magi” l’aspetto e l’incanto della favola.
Nella versione di Tortona essa si esprime nell’enfatico allungarsi dei sontuosi mantelli dei re d’Oriente, ciascuno individuato attraverso il gusto tattile per le preziose stoffe quasi in rilievo.
Agili e irriverenti monelli, portatori di fantastici doni, sono i paggi che sorreggono gli strascichi dei manti; mentre, a perdita d’occhio, si snoda un corteo di uomini e cammelli.
Nel tratteggiare l’immagine della Maternità, Previati si attiene al dettato di immaterialità dei corpi già espresso nel celebre dipinto del 1890-91, presentato a Milano: l’esile figura di Maria, avvolta in candide vesti, sembra annullarsi per lasciare spazio solo all’immagine del bambinello dormiente.
Museo Diocesano
In un luogo simbolo della Diocesi -gli spazi dell’ex Seminario Vescovile- il Museo d’Arte Sacra raccoglie opere confluite per lo più nei depositi della Curia per motivi di sicurezza, le quali provenendo dalla città di Tortona e dall’ampio territorio diocesano conferiscono al nuovo Istituto una peculiarità fondamentale: raccontare la storia della Diocesi attraverso la produzione artistica e fornire un’esperienza pastorale per la comunità diocesana e per i fruitori del museo.
La sede è un palazzo storico con una propria fisionomia, che non poteva e non doveva essere cambiata: con gli adeguamenti strutturali e funzionali dei locali ai piani terreno, primo e secondo dell’ala meridionale del complesso, il percorso museale si snoda su tre livelli attraverso un itinerario sia tematico che cronologico che comprende, rinnovandole, le sale espositive del primo allestimento realizzato nel 2004.
Il Museo, tramite una sala cerniera che si affianca alla Biblioteca e all’Archivio Storico già presenti nel palazzo, viene a concretizzare l’unità del Polo Culturale Diocesano e con essa il suo ruolo di servizio ecclesiale.
Al Piano terra sono esposti I beni dell’Archivio e della Biblioteca ovvero i fogli superstiti del Codice purpureo di Sarezzano, alcune pergamene e carte dell’Archivio storico che raccontano gli aspetti salienti della storia istituzionale della Diocesi; importanti edizioni librarie rendono conto della ricchezza del patrimonio bibliografico diocesano conservato. Sempre al piano terra, nella Sala Loreto, sono presenti alcuni dipinti, sculture, reliquiari e paramenti religiosi della chiesa tortonese di Santa Maria di Loreto ripropongono l’arredo sei – settecentesco della chiesa, chiusa al culto dal 1973.
Salendo al primo piano è possibile ammirare la sezione dedicata alle Opere antiche ovvero opere del Quattrocento e del Cinquecento che mostrano alcune testimonianze, piuttosto rare in Diocesi, di dipinti su tavola e un gruppo scultoreo in terracotta. A seguire è presente la sala dei dipinti del sec. XVII, dipinti di artisti piemontesi e lombardi dell’età della Controriforma, provenienti dal territorio diocesano, ma già conservati in Episcopio da alcuni decenni per motivi di sicurezza. Procedendo nel Corridoio, sempre del primo piano, sono esposte le testimonianze dei prelati del Cinquecento e della prima metà del Seicento, impegnati nella promozione della Controriforma e nel conseguente rinnovamento spirituale e gestionale della Diocesi.
Passando al secondo piano troviamo la sala dedicata alle Opere dal territorio: secc. XVIII-XIX, provenienti dall’Oltrepo pavese e dal versante ligure piemontese della Diocesi, che forniscono un esempio della diversità culturale che caratterizza l’articolato territorio diocesano. Sempre al secondo piano e percorrendo il Corridoio è possibile scorrere la galleria dei ritratti che comprende dipinti raffiguranti alcuni vescovi di primo piano nell’amministrazione della Diocesi fra Sei e Settecento. Accanto ai ritratti sono esposti mitre e pastorali, simboli vescovili, e alcuni calici appartenuti a presuli tortonesi.
MUSEO DIOCESANO
Via Seminario, 7 – 15057 Tortona (AL)
www.diocesitortona.it
Orari di apertura: Giovedì e Venerdì 9.30-12.30 (su richiesta)
Sabato e Domenica 15.30-18.30 (ottobre-aprile) 16.00-19.00 (maggio-settembre)
In altro orario possibilità di visite su prenotazione per gruppi e scolaresche.
Chiuso ad agosto e nelle festività religiose.
Per prenotazioni ed informazioni, dal lunedì al venerdì mattina: Tel. 0131.816609 Ufficio Beni Culturali
In orario di apertura: Tel. 0131.1922731
beniculturali@diocesitortona.it
www.cittaecattedrali.it
La pieve di Viguzzolo
L’esistenza di una pieve nel territorio viguzzolose come circoscrizione ecclesiastica di raggio abbastanza ampio che faceva capo ad un edifico materiale nel quale si amministravano i sacramenti, è testimoniata già nel secolo IX.
Di questo edificio altomedievale, però, oggi non si conserva alcuna traccia, fatta eccezione per alcuni frammenti decorativi ancora oggi conservati al suo interno.
La plebs è spesso citata nei documenti del XII secolo, dai quale si desume che la chiesa avesse all’incirca l’aspetto attuale: cioè una costruzione romanica, con una facciata decorata dai tipici archetti pensili e suddivisa da lesene, la porta ad arco a tutto sesto e un occhio circolare, costruito in epoca successiva, come il piccolo campanile a vela soprastante. L’interno è a tre navate chiuse da tre absidi semicircolari suddivise in quattro campate di pilastri quadrangolari con semicolonne addossate.
La copertura del tetto, a doppio spiovente, è a capriate. Delle decorazioni interne nulla è rimasto, tranne alcuni frammenti di affreschi nel catino absidale.
Nella Pieve è conservato un crocefisso ligneo del XVI secolo che, secondo la tradizione era utilizzato ai tempi dell’Inquisizione per indicare la sentenza di condanna.
Sotto la chiesa si trova una cripta con volte a crociera, in mattoni, sostenute da colonnine in pietra.
Nel corso dei secoli l’edificio fu più volte rimaneggiato.
L’intervento che ha condizionato maggiormente l’aspetto attuale della chiesa è quello risalente al 1935, realizzato sotto la direzione di Carlo Ceschi,ispettore della Regia Soprintendenza per il Piemonte e la Valle d’Aosta; nel 1938 l’edificio, che da molto tempo non era più officiato, fu solennemente consacrato e dedicato ai Caduti per la Patria. Nella cripta venne eretto un altare votivo, il recinto venne adibito a parco della Rimembranza, al centro del quale venne posto il monumento ai Caduti, precedentemente ubicato nella piazza centrale del paese.
Le infiltrazioni di umidità risalenti del sottosuolo, unitamente alle acque piovane non perfettamente canalizzate, interessarono ben presto sia le strutture murarie perimetrali dell’esterno, sia quelle interrate della cripta.
Per ovviare a tali danni, nel 1989 si è proceduto alla riqualificazione dell’area prospiciente la pieve e all’eliminazione degli alberi del parco della Rimembranza, consentendo quindi la bonifica della zona circostante e dando luce al corpo di fabbrica.
Volpedo
Il paese si trova allo sbocco in pianura padana del torrente Curone, con la pianura che si apre a nord e le colline che contornano la valle a sud, dominate dalla vista del Monte Giarolo.
Il nucleo storico sorge su una collinetta sulla sponda destra del torrente, attorno alla quale vennero costruite le mura del castrum, la quale si allunga verso il corso d’acqua, costituendo un punto di guado verso la sponda opposta, su cui infatti è stato edificato il ponte.
In questo percorso suggeriamo di soffermare l’attenzione sul cittadino più illustre che Volpedo abbia avuto: qui nacque infatti il pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), uno dei pittori italiani più importanti del suo tempo, noto al grande pubblico soprattutto per essere autore della celebre tela “Il Quarto Stato”. Pellizza fece la scelta di vivere e lavorare nel paese in cui era nato e, in segno di attaccamento alla sua terra, di aggiungere alla sua firma ‘da Volpedo’.
È anche grazie all’opera di valorizzazione della produzione pittorica del Pellizza che nel 2006 Volpedo è stato inserito nel ‘club de I Borghi più belli d’Italia’, Qualcuno si stupirà nel trovare Volpedo tra i Borghi più belli d’Italia. In effetti, il paese a prima vista sembra sfilacciato, poco compatto nella sua struttura urbanistica d’impronta medievale (ancora chiaramente visibile) a causa degli interventi edilizi che hanno alterato le fisionomie originarie. D’altra parte, questo è un paese di campagna, di chiara vocazione agricola, che non ha mai agito in funzione di una sua valorizzazione turistica, se non negli ultimi tempi.
A Volpedo, la fisionomia ottocentesca è ben riconoscibile e permette al visitatore di seguire un itinerario tra arte e paesaggio sui luoghi pellizziani.
Si parte dunque dallo Studio fatto costruire da Pellizza nel 1888, dopo aver deciso di vivere e operare nel paese natale, pur restando in contatto con le grandi correnti artistiche internazionali.
L’atelier, che era per l’artista luogo di lavoro ma anche di studio e di incontro con gli amici, quando non gli era possibile dipingere ‘en plein air’, è aperto al pubblico e si presenta come un contenitore prezioso delle memorie di Pellizza.
I luoghi del pittore rivivono attraverso le riproduzioni in grande formato di dieci opere disseminate nel borgo e collocate in punti selezionati, a diretto confronto con gli scorci di paesaggio che le hanno ispirate.
In questo museo all’aria aperta, il continuo paragone tra l’oggi e l’ieri sollecita il ricorso alla potenza dell’arte, che si manifesta via via lungo il percorso. Di fronte alla casa natale di Pellizza, adiacente allo studio, si apre lo slargo riprodotto nell’olio La strada per Casalnoceto (1890-91). Più avanti, nel cortile di casa Pellizza, si scorge lo scenario in cui è ambientata la prima tela divisionista, “Sul fienile” (1896).
Imboccando via Garibaldi verso il centro del paese, si scorge a destra il paesaggio della Strada della pieve di Volpedo (1896). Proseguendo per la stessa via e costeggiando il muro del giardino di palazzo Malaspina, si entra in piazza Perino, già sede del mercato del bestiame e ora del mercato della frutta.
Di fronte, sulla destra, si apre la viuzza tra il giardino e il palazzo che da Perino Cameri – capitano di ventura che nel XV sec. ricevette dai Visconti il borgo in feudo – passò a Guidobono Cavalchini nel XVIII sec. e poi ai Malaspina, ogni volta modificato.
Proseguendo verso il cuore del paese, si contorna l’ottocentesco palazzo comunale (da vedere il bassorilievo gotico nell’atrio) e si entra nella piazza principale, che sarà a breve oggetto di recupero.
La stretta via della Chiesa, incastonata nel cuore dell’antico castrum, conduce alla piazzetta, oggi chiamata Quarto Stato, in cui Pellizza realizzò, dal 1892 al 1901, le sue grandi opere sociali utilizzando i contadini come modelli dal vero: Ambasciatori della fame, Fiumana, Il cammino dei lavoratori e, infine, Il Quarto Stato. Un lampione indica la posizione in cui il Pellizza piazzava il cavalletto. La tela “Paesaggio: piazza Malaspina a Volpedo” è il riassunto visivo di questo luogo.
Continuando per via del Torraglio, dove le case hanno conservato l’originaria pietra nuda, sottratta nei secoli al letto del vicino torrente, si scende lo scalone e si giunge alle vecchie mura, d’impianto cinquecentesco, salvate dalla distruzione grazie all’intervento di Pellizza nel 1904.
Riprendendo a ritroso via Cavour, si passa davanti alla sede della ex Società operaia di mutuo soccorso (1896), di cui Pellizza caldeggiò la costruzione, e si arriva alla millenaria Pieve, gioiello romanico della val Curone.
La chiesa, già citata nel 965 e ricostruita nel XV sec., presenta una facciata di assoluta semplicità e custodisce all’interno pregevoli affreschi quattrocenteschi.
Tra le iniziative culturali intraprese va ricordata l’apertura, in piazza Quarto Stato, di un Museo didattico dedicato all’analisi del percorso artistico del pittore; poi ancora la molteplici manifestazioni che vedono impegnata la comunità locale nella valorizzazione del territorio, a partire dal lascito di memorie pelliziane. Un importante contributo in tal senso è dato dall’Associazione Pellizza da Volpedo http://www.pellizza.it/.
Veniamo ad analizzare le principali opere del pittore.
Sul fienile (1893)
(olio su tela, cm 133×243,5, collezione privata)
Preparato a lungo nel corso del 1892, Sul fienile fu eseguito nel corso del 1893 ed esposto a Milano nel 1894, ma poi ancora ripreso nel 1895. Insieme al quasi contemporaneo Processione, fu il primo quadro in cui Pellizza cercò di applicare meticolosamente il divisionismo.
Ambientato nel vecchio portico di casa, Sul fienile rivela una scrupolosa attenzione al vero. Il pittore stesso, consapevole dell’importanza rivestita da questa opera nel suo iter creativo, la indicò come il vero e proprio inizio di una sua nuova fase pittorica, attenta ai temi sociali e capace di instaurare un più stringente rapporto col vero grazie all’utilizzo della nuova tecnica. Poteva così comunicare efficacemente con tecniche nuove e scientificamente esatte il suo modo di sentire e di porsi nei confronti del vero, attraverso la rappresentazione del …contrasto eterno tra la vita e la morte… un figlio della gleba che partito da casa per guadagnare con marra e piccone il pane per la sua famiglia si riduce lontano da essa a morire sul fienile – il sacerdote gli somministra il viatico… La medaglia d’oro vinta a Monaco nel 1901 confermò a Pellizza la fiducia in questa sua opera.
La neve (1906)
(olio su tela, cm 94×94, collezione privata)
L’opera, di grande efficacia cromatica, ricca di iridescenze e vibrazioni luminose, doveva essere pressoché compiuta alla fine del 1906, anno in cui qualche riferimento a paesaggi innevati si può trovare anche negli appunti di Pellizza. Nel gennaio 1906, ad esempio, scriveva a Giovanni Cena che, prima di partire per raggiungerlo a Roma, aveva intenzione di finire un “paesaggio invernale”, e nel novembre dello stesso anno preannunciava a Fradeletto, segretario della Biennale di Venezia, l’intenzione di inviare all’esposizione del 1907 un “Crepuscolo invernale (un metro circa quadrato)”, che per condizione di luce e dimensione potrebbe riferirsi a La neve.
Nessun appunto preciso ci illumina invece sulla genesi del quadro: si ricorda tuttavia la presenza fra i disegni del 1900 di un paesaggio in tondo orchestrato sulla presenza del canale e delle due chiuse, tale da suggerire un possibile riferimento. La presenza della donna sulla sinistra e delle due chiuse sono elementi che avvicinano l’opera al ciclo L’amore nella vita, e in particolare all’ultimo dei pannelli del trittico con un vecchio che si scalda al fuoco davanti alla chiusa e con una vecchia in secondo piano, mentre il paesaggio di fondo con la collina dominante ricorda il primo dei panelli del trittico. Se le due chiuse si impongono nei loro tratti squadrati, le restanti linee del paesaggio sono a dominante curva e serpentinata, in perfetta consonanza con la poetica dell’artista che riteneva la linea ondulata uno degli elementi necessari ad una moderna opera pittorica.
[Aurora Scotti, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale, Milano 1986, scheda 1339
(testo adattato per l’ampliamento dell’Itinerario sui luoghi pellizziani in Volpedo, 2008)]
Membra stanche o Famiglia di emigranti (1906)
(olio su tela, cm 127×164, collezione privata)
Nel 1906 Giuseppe Pellizza lavorò alacremente ad uno dei suoi capolavori divisionisti, frutto di un lungo periodo di maturazione e di elaborazione figurativa, ispirato al tema del lavoro: si trattava di Membra stanche, che “è la tappa presso Volpedo di una famiglia che ritorna all’Appennino dalle risaie lomelline”, una tela poi intitolata Emigranti o La famiglia di emigranti.
Era un quadro nodale nel percorso pellizziano, la cui prima idea risaliva al 1896, anno di un bel bozzetto con cui il pittore aveva già definito numero e posizione delle figure da porre in primo piano, con il Curone sullo sfondo.
Il soggetto perfezionava e dava un respiro universale alla vicenda del lavoratore morto trattata in Sul fienile, e poneva in più esplicita evidenza la realtà “locale” del fenomeno, allora in espansione, dell’emigrazione per il lavoro, superando nel rigore assoluto della composizione e nella icasticità delle pose qualsiasi tentazione di risolvere il tema in chiave di pittura di genere o di descrizione aneddotica.
La data del bozzetto era assai significativa perché proprio nell’ultimo decennio dell’Ottocento il tema aveva incominciato ad attirare l’attenzione di scultori e pittori: basti pensare ai quadri di artisti legati alla rappresentazione del vero ed educati alla esperienza della macchia alla scuola di Fattori come Raffaele Gambogi ed Adolfo Tommasi.
Mammine (1892)
(olio su tela, cm 213×203, collezione privata)
Il dipinto riassume in modo emblematico lo studio dal vero sulla natura, sul lavoro e sull’uomo, condotto dal pittore nel periodo di intensa e puntuale formazione degli anni giovanili.
Ispirato ad un soggetto di genere di quotidiana vita campestre, rappresenta un prato scintillante sotto la luce viva del sole, su cui si stagliano nette le figure di ragazzine con bambini, in vibranti controluce.
Anche lo sfondo, in articolata struttura spaziale segnata dai tronchi d’albero, e la chiusura del campo con un alto muretto nella parte destra riconducono ai molti bozzetti dal vero fatti nei dintorni di casa Pellizza nel corso del 1890-91.
Lo sfondo è occupato da episodi di lavori campestri; in primo piano domina la scena, certo di genere ma immune da qualsiasi bozzettismo, delle fanciulle che fanno da mamma ai fratellini, disposte secondo una composizione piramidale.
L’apparente semplicità del tema lascia il posto ad una sapiente costruzione dell’immagine, tanto da far guadagnare al pittore i primi riconoscimenti importanti: la medaglia d’oro e il plauso della critica all’esposizione italo-americana di Genova del 1892.
Venduta in Russia nel 1898, la tela ricompare in un’asta londinese del 1980.
[Testo tratto da Pellizza da Volpedo: Catalogo Generale, a cura di Aurora Scotti, Milano, 1986 scheda 756]
Vecchio mulino a Volpedo (1903)
(olio su tela, cm 44,5×64, collezione privata)
Il mulino mosso dalle acque della roggia Ligozzo era situato al tempo di Pellizza nella piazza Perino all’imbocco dell’attuale via Mazzini; fu abbattuto negli agli anni venti del secolo scorso, quand’era ormai inattivo, e il corso d’acqua venne deviato fuori dal centro abitato.
La tela di Pellizza costituisce l’unica testimonianza iconografica rimastaci dell’intero complesso. In essa colpisce la netta scansione dei piani, ottenuta sia con il sapiente incastro delle forme architettoniche del grande mulino e delle case adiacenti, sia con la lunga ombra che si proietta in primo piano a marcare con più forza l’ampiezza e la profondità della strada.
Non è improbabile che Pellizza avesse impostato il quadro agli inizi del Novecento, quando aveva incominciato ad interessarsi allo studio delle chiuse e degli incastri delle condotte d’acqua e, accanto a temi ricchi di suggestioni simboliste o letterarie, tornava a trattare alcuni scorci ambientali di Volpedo e del suo territorio, puntando su forme articolate in sintesi geometriche, quali aveva praticato nel periodo iniziale di sperimentazione della tecnica divisionista. In questo caso al divisionismo applicato rigorosamente sullo sfondo fa riscontro un più libero modo di trattare il primo piano con tonalità cromatiche ocra-rosate e con stesura più mossa e libera, tale da far ipotizzare un vago influsso di gamme impressioniste, quali Pellizza aveva potuto vedere nei Monet esposti alla Centennale di Parigi nel 1900 e nelle tele del Luxembourg.
[Aurora Scotti, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale, Milano 1986, scheda 1130]
Il Quarto Stato (1901)
(olio su tela, cm 293×545, Milano, Museo del Novecento, Palazzo dell’Arengario in piazza Duomo)
Il Quarto Stato fu dipinto da Pellizza tra il 1898 e il 1901 e venne acquistato per pubblica sottoscrizione dal Comune di Milano nel 1920; da allora fa parte delle Civiche Raccolte d’Arte. Pellizza decise il titolo con cui il quadro è universalmente noto poco prima di inviarlo alla Prima Quadriennale di Torino del 1902, in sostituzione del precedente Il cammino dei lavoratori, con una più consapevole scelta di classe, maturata a margine di letture socialiste e anche di una riflessione sulla Storia della rivoluzione francese di J. Jaurès, che in quegli anni usciva in edizione italiana economica e a dispense. Il soggetto è ispirato a uno sciopero di lavoratori, un tema che aveva interessato i pittori del realismo europeo alla fine dell’Ottocento (da Lo sciopero dei minatori di Alfred-Philippe Roll del 1884 a Sciopero di Plinio Nomellini del 1889, a Una sera di sciopero di Eugene Laermans del 1893).
Rispetto ai contemporanei il quadro di Pellizza rifiuta caratterizzazioni di eccitata protesta o di passiva rassegnazione, ma legando il tema iconografico dello sciopero con quello della sfilata che caratterizzava le celebrazioni della festa dei lavoratori, presenta una schiera di braccianti che avanza frontalmente, guidata in primo piano da tre persone in grandezza naturale: un uomo al centro affiancato, in posizione leggermente arretrata, da un secondo lavoratore più anziano e da una donna con un bimbo in braccio. La scena si svolge su una piazza illuminata dal sole chiusa sul fondo da folte macchie di vegetazione, che schermano anche le architetture esistenti, e da una porzione di cielo bluastro con striature rossastre iscritta in una cornice centinata. L’organizzazione dei personaggi fu lungamente studiata da Pellizza attraverso disegni preparatori a carboncino e gesso di grande suggestione compositiva e chiaroscurale: disegni singoli per i tre protagonisti, a gruppi per i personaggi in secondo piano, e di dettaglio per teste o mani delle ultime figure sul fondo.
Come i tre personaggi principali non si collocano su un’unica linea ma hanno un’impostazione leggermente a cuneo, così anche i personaggi in secondo piano sono solo apparentemente disposti a schiera, perché in realtà, come è ben evidenziato anche dalle loro ombre, si distribuiscono secondo una linea ondulata ribadita da un analogo comporsi del movimento delle mani nonché dal ritmo e dalla direzione delle loro teste. Questa soluzione contribuisce a evitare che il tutto appaia statico e greve, e a suggerire invece un movimento ritmico e continuo, che ben rappresenta ed evidenzia l’idea dell’avanzata.
Anche le diverse condizioni di luce concorrono ad accentuare questa impressione di moto, perché mentre lo sfondo del cielo rappresenta un tramonto, le figure sono viste in una luce quasi meridiana: si accentua in tal modo l’idea dì un trascorrere del tempo e quindi di un collocarsi dell’episodio in uno spazio e in un tempo apparentemente unitari e contingenti, ma, in realtà, espressione di una dimensione più articolata e capace di alludere a un lampo e a una natura che diventano il simbolo di una storia e di valori più universali.
In essi infatti si materializza l’avanzare inarrestabile di uomini e donne le cui connotazioni descrittive di età e di classe vengono rielaborate e riassorbite in forme nutrite di una profonda cultura pittorica che attinge ai modelli rinascimentali (Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Botticelli) lungamente studiati nei musei di Firenze, nelle Stanze e nei Palazzi Vaticani, e sulle fotografie Alinari, che di tali capolavori documentavano efficacemente forme, ritmi e articolazioni compositive.
La volontà dell’autore di misurarsi al tempo stesso con la contemporaneità e con la storia si traduce non nella semplice riproposizione di un episodio contingente di uno sciopero o di una manifestazione di protesta, da cui pure aveva tratto fin dal 1891 la prima idea del quadro – in una ricerca che aveva prodotto il più oggettivamente naturalistico Ambasciatori della fame del 1892 e la interpretazione meno oggettiva e fortemente simbolista di Fiumana del 1895-96 -, ma nella ideazione di un quadro capace di esaltare l’oggettività delle forme e di simbolizzare tutto il cammino che la classe lavoratrice aveva fatto e si preparava a compiere, un cammino di affrancamento dall’abbrutimento della fatica verso una più umana consapevolezza del proprio valore e della propria forza, un percorso frutto di azione ma anche di pensiero.
Un simile elogio della contemporaneità non poteva essere realizzato se non con una tecnica capace di essere assolutamente moderna, e cioè scientificamente controllata nei passaggi costruttivi della figura ma anche nello studio degli accordi e dei contrasti delle luci a partire dalle basi offerte dalla fisica e dalla chimica ottocentesche. Il Quarto Stato è un’opera complessa, frutto di una tecnica cromatica matura ed efficace. Sulla grande tela, preparata a colla e gesso, Pellizza tracciò le linee di riferimento necessarie per costruire i numerosi personaggi su vari piani e la scena d’ambiente, utilizzando veline ricavate a penna sulla base di diversi cartoni a carboncino; intervenne poi col colore che usò puro, nella ricca gamma di toni messa a disposizione a fine Ottocento dalla casa parigina Lefranc, e che applicò a punti e lineette secondo le leggi del divisionismo, per rendere non solo effetti convincenti di luce ma anche di ariosità e di massa sia nel paesaggio sia nelle figure.
Nel piano d’appoggio dominano tonalità ocra e rosate, che trovano il loro punto di massima accensione nel gilet rosso del personaggio in primo piano; nelle figure gli abiti sono realizzati con colori verdastri e giallo sulfurei, ottenuti con una ripetuta sovrapposizione dei vari pigmenti colorati, studiati nelle loro interferenze e nei loro timbri sulla base di cerchi cromatici del tipo elaborato da N.O. Rood (Modern Chromatics uscito a Londra nel 1879), capaci di determinare particolari intensità di toni sfruttando le leggi del contrasto e della complementarità. Anche la dimensione e la direzione delle pennellate contribuiscono a costruire le forme in modo tale da garantire a esse volume pur senza accentuarne la pesantezza robustezza. Analoga sapienza denotano le macchie di vegetazione che mediano con il loro controluce e la ricchezza de! Fogliame tra la piena luminosità del primo piano e il corrusco tramonto di fondo. Proprio queste caratteristiche di serena oggettività, ma anche di forza e di sicura determinazione hanno contribuito a definire il valore simbolico dell’opera adottata come manifesto dai lavoratori e dalle loro associazioni fin dall’inizio della sua storia espositiva, all’origine di una lunga serie di usi e di riprese soprattutto nella seconda metà del Novecento.
[Testo di Aurora Scotti, tratto da Cento opere.
Proposte di lettura, in Enciclopedia dell’arte, Milano (Garzanti) 2002]
Via Postumia
La Via Postumia è una via consolare romana fatta costruire nel 148 a.C. dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l’odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari.
Congiungeva per via di terra i due principali porti romani del nord Italia: Aquileia, grande centro nevralgico dell’Impero Romano, sede di un grosso porto fluviale accessibile dal Mare Adriatico, e Genova.
Per trovare i due successivi porti più importanti si doveva scendere a Roma dal lato tirrenico e a Ravenna dal lato adriatico.
Percorso
La strada, lasciata Genova, percorreva la Val Polcevera fino a Pontedecimo (Pons ad decimum lapidem), quindi valicava l’Appennino nei pressi dell’odierno Passo della Bocchetta. Bisogna ricordare che la strada proseguiva, anche seguendo il tracciato di precedenti percorsi liguri, per i crinali anziché per i fondovalli. Pertanto dalla Bocchetta (o Pian di Reste) procedeva per il Monte Poggio, passando per l’odierno Fraconalto (inizialmente Fiaccone, sorto nel Medioevo, probabilmente attorno ai secoli IX-X), scendeva per il valico presso l’attuale Passo della Castagnola, frazione di Fraconalto, risaliva per il Monte Porale, e quindi scendeva verso la pianura passando per la fiorente Libarna. La meta finale di questo primo settore dell’Oltregioco era Dertona.
Proseguendo nel suo cammino, la via Postumia congiungeva Dertona con Placentia (Piacenza), inserendosi nel sistema viario costituito dalla via Emilia che proveniva da Rimini (Ariminum) già dal 187 a.C. da dove si collegava a Roma attraverso la via Flaminia dal 220 a.C. Il tratto Placentia–Dertona della via Postumia divenne in seguito parte della via Julia Augusta, costruita nel 13 a.C. per volere dell’imperatore Augusto al fine di completare il collegamento stradale tra Roma e la costa meridionale della Gallia: raggiungeva Arles passando per il trofeo di Augusto alla Turbie.
La via Postumia da Placentia proseguiva fino a Cremona dove attraversava il fiume Po e da qui, proseguendo verso est, raggiungeva Bedriacum, l’odierna Calvatone, città sorta alla confluenza tra il fiume Oglio e il Chiese. Da Bedriacum si diramava un tratto che raggiungeva Mantua (Mantova), mentre il percorso principale proseguiva per Verona, dove attraversava il fiume Adige. Per questo motivo, la via Postumia assumeva grande importanza in quanto rappresentava l’unico percorso interamente terrestre che consentiva di arrivare da Roma all’est e al Trentino, in quanto il suo ponte a Verona era all’epoca l’unico sull’Adige. Da Verona, prima di raggiungere Aquileia sul mare Adriatico, portando a termine il collegamento con il mare Tirreno da cui partiva, la via Postumia passava per Vicenza, Oderzo e Iulia Concordia, l’odierna Concordia Sagittaria.
Con l’apertura della nuova via Julia Augusta tra Tortona e Vada Sabatia (Vado Ligure), che tagliava fuori Genova, il primo tratto della strada perse progressivamente importanza e con essa le zone della valle del Lemme. Al contrario acquistarono importanza le zone intorno ad Acqui Terme.
La via Postumia, con qualche modifica, rimase attiva (con alterna fortuna) almeno fino all’VIII secolo sotto il controllo dei monaci della potente Abbazia di San Colombano di Bobbio, per poi cadere lentamente in disuso fino ad essere dimenticata.
Fu in parte ripresa dopo l’anno Mille, come percorso privilegiato, dalla Repubblica di Genova che pose sotto il suo controllo i centri di Gavi, Voltaggioe Fiaccone (Fraconalto).
Situazione attuale
Attualmente alcuni tratti sono percorribili come strada provinciale (da Vicenza in direzione Treviso) con il nome di Strada provinciale 102 Postumia romana; altri sono andati completamente in disuso.
Nel tratto tra Vicenza ed Oderzo era quasi perfettamente rettilinea, salvo una curva in prossimità dell’attraversamento del fiume Brenta. Il suo tracciato originario è facilmente visibile e ricostruibile utilizzando mappe o foto satellitari, e collegando con una linea retta i frequenti tratti ancora attivi.
Esiste un tratto percorribile denominato “Via Postumia” (Strada Provinciale 27) anche in provincia di Cremona fino al capoluogo di provincia stesso: vi entra ad Est (vicino al casello autostradale) e a Sud/Ovest (Via del Sale). Il fiume Po non veniva attraversato dove scorre adesso, perché le mappe medievali testimoniano di un suo corso più vicino alle mura della città. Il tracciato rettilineo di continuazione è facilmente individuabile anche a Castelvetro Piacentino.
Un ulteriore tratto rettilineo di oltre 50 km, virtualmente ininterrotto, tra il Veronese ed il Mantovano, tutt’oggi quasi del tutto percorribile in auto, parte dalla Chiesa di Santa Anastasia per lambire l’antico Foro Romano della città di Verona (l’attuale Piazza delle Erbe), Corso Portoni Borsari (fin qui la via corrispondeva al Decumano Massimo della città), Corso Cavour, quartiere Stadio, Via Mantovana per abbandonare la città in direzione Villafranca di Verona, Quaderni di Villafranca; in provincia di Mantova con il guado del fiume Mincio, Goito, Gazoldo degli Ippoliti per arrivare al fiume Oglio.
https://it.wikipedia.org/wiki/Via_Postumia
https://www.facebook.com/groups/319290031614676/
Libarna
A soli 20 minuti dalle Colline Tortonesi, in direzione Genova, si trova l’Area archeologica di Libarna, un’antica città romana nata nel II secolo a.C. lungo la via Postumia, la cui storia è comune a quella di Derthona.
Oggi sono ancora visibili i resti dell’anfiteatro, del teatro, di due quartieri di abitazioni e alcune strade urbane, tra cui ancora un tratto originale della via Postumia.
Scaricando l’app “Libarna” è possibile fare una visita virtuale della città e ammirare gli edifici attraverso le ricostruzioni tridimensionali.
Libarna, un sorprendente tuffo nel passato e ideale punto di partenza per andare alla scoperta della storia di questo territorio, raggiungibile anche in bicicletta attraverso i tanti percorsi del circuito dei “Colli di Coppi”.
Info: www.scoprilibarna.it
Novi Ligure
Novi sorge nella Valle Scrivia, a ridosso dell’Appennino Ligure e conserva testimonianze artistiche e storiche di impronta genovese, memoria di una lunga appartenenza al capoluogo ligure (1147-1815).
Passeggiare per le vie del centro storico di Novi è un po’ come percorrere i corridoi di una galleria d’arte all’aperto, poiché la caratteristica principale della città vecchia è rappresentata dai “palazzi dipinti”, tradizione mutuata direttamente da Genova a partire dal XVII secolo. I palazzi nobiliari fatti edificare dalle più illustri famiglie genovesi, gli Spinola, gli Adorno, i Balbi, i Brignole Sale nei secoli XVII e XVIII, furono decorati in facciata da pregevoli affreschi en trompe l’oeil a motivi architettonici e mitologici, uniti a ghirlande e motivi floreali.
Le chiese del centro storico, così come i palazzi, sono legate al gusto barocco del XVII secolo; la più interessante dal punto di vista artistico è l’Oratorio di Santa Maria Maddalena che conserva uno straordinario Calvario ligneo composto di 21 statue a grandezza naturale disposte nello spazio del bacino absidale. Da visitare, per la ricchezza di opere d’arte, tele pregevoli e antiche statue, è la chiesa Collegiata di S. Maria Assunta che sorge nel cuore del centro storico e si affaccia sulla Piazza Dellepiane, cuore antico della città, dove fanno bella mostra di sé anche alcuni dei palazzi più belli.
Domina il nucleo antico la torre del castello, risalente al Duecento e vero simbolo della città di Novi Ligure.
Appena fuori dal centro, sorge l’antica chiesa di S. Maria della Pieve, con absidi romaniche in fasce di mattoni alternate a fasce in pietra arenaria che rimandano al periodo medioevale della sua costruzione. All’interno dell’abside minore, si è conservato un affresco firmato da Manfredino Boxilio e datato 1474 che raffigura la Signora di Novi, Oriana di Campofregoso, con la Madonna, S. Anna, S. Giovanni Battista e S. Margherita.
Museo dei Campionissimi
Il museo, inaugurato nel 2003, è il tributo della città di Novi Ligure ai suoi campioni e al ciclismo, sulla scia della definizione che fu coniata da Carlin Bergoglio di Novi Ligure “Università del Ciclismo”.
Qui era nato il primo Campionissimo, Costante Giradengo, classe 1893, e molti corridori del ciclismo “eroico”, quali Luigi Giacobbe, Pietro Fossati, Osvaldo Bailo. Qui ebbe la sua maturazione agonistica Fausto Coppi, alla scuola di un altro “figlio” novese, quel Biagio Cavanna personal trainer ante litteram. Questa fu anche la città dei grandi gregari Ettore Milano, Andrea Carrea, Franco Giacchero, Mario Gervasoni, Pierino Zanelli, Carlo Campora e Luciano Parodi . Novese è Mario Ferreti Junior, grande firma del giornalismo sportivo, novesi tanti dirigenti del ciclismo agonistico, meccanici e tecnici.
Il museo è allestito all’interno di un insediamento industriale dismesso, un simbolo della storia economica e sociale della città.
Lo spazio interno, con una superficie di 3000 metri quadrati, presenta una lunga pista centrale che narra la storia della bicicletta attraverso l’esposizione di pezzi importanti, dalla draisina agli ultimi prototipi in carbonio. Due sale megaschermi, tra loro speculari, attraverso filmati d’epoca testimoniano arrivi spettacolari e duelli memorabili; la sala dei Campionissimi, cuore della memoria e del ricordo, è dedicata a Fausto Coppi e Costante Girardengo, con cimeli, biciclette e testimonianze inedite della loro gloria di campioni.
Cassano Spinola
CENNI STORICI…Questo luogo si trova nominato in un diploma del 1014, in cui l’imperatore Arrigo ne conferma il possedimento all’abbazia di Lucedio, ora di s. Genuario. Era un cospicuo borgo con corte e castello, come si riconosce da una carta di donazione del 1149 fatta al comune di Tortona dai signori di questo luogo Anselmo, Crivellario, Pietro, Manfredo, ed Ogglerio, figliuoli di Ansaldo in un colla loro genitrice Rechilda, che pure di un Ansaldo era figlia.
Il Montemerlo nella sua storia di Tortona fra i casati nobili esistenti in quella città nel 1145 accenna quel ramo della predetta famiglia, che vi si era stabilito, e non aveva per anco altro nome a distinguersi, fuorché quello di De Cassano. Nel trattato di riconciliazione della città di Tortona coll’imperatore Federico I (1183) è detto che il comune di Pavia dovrà restituirle i castellani di Cassano, e di altri luoghi. Arrigo VII nel 1220 le ne confermò il possesso.
Essendo questo un borgo sullo Scrivia di molto transito, eravi stabilito un dritto di pedaggio a favore del comune di Tortona. Laonde i milanesi che facevano altre volte un grande commercio colla riviera Ligure, col Piemonte, ed oltre le alpi, conchiusero coi Tortonesi l’anno 1185 un trattato, con cui si regolarono i dazii da pagarsi rispetto alle persone ed alle cose nella via dal Po sino a Cassano, e gli altri da Cassano all’insù.
De’ Cassani, detti anche Casseni, se ne trovano in Asti nel secolo decimoterzo, i quali possedettero il castello di Calosso: di questi un Guglielmo, chiamato il dottore eccellente, era giudice di Pavia del 1231: un Vercellio De Cassano cogli altri credenziarii riceveva in Asti nel 1251 il giuramento di pace degli ambasciadori di Mondovì: un Solimbene era de’ capi Guelfi aderenti ai Solari, coi quali (1317) cooperava per dare la città al re Roberto di Sicilia, capo de’ Guelfi d’Italia: un Antonio combattendo da prode col regio Siniscalco contro il conte Garnero capitano delle truppe dell’imperatore Arrigo, morì gloriosamente in vicinanza di Annone: un altro Antonio nel 1385 permutò in altri beni il suo castello di Calosso con Petrino Cacherano.
Alcuni di questa prosapia passarono a Mondovì; ed un Andrea cogli altri consiglieri della città sottoscriveva (1210) l’atto di dedizione al marchese Manfredo di Saluzzo, ricevuto da Guidone di Piozzasco di lui legato: il signor Leonardo dottore di leggi, insieme con Giovanni De Consule capitano del popolo assisteva (1328) al giuramento di fedeltà prestato al vescovo d’Asti da una parte degli uomini di Mondovì.
Il cospicuo luogo di Cassano soffri molto nelle guerre degli Astigiani contro gli Alessandrini ed i Tortonesi verso il fine del secolo decimoterzo. Sopportò eziandio nel 1499 gravissimi danni dalle nemiche truppe di Francia capitanate dal maresciallo Triulzi.
Appartenne in feudo ai marchesi Spinola di Genova, residenti in Tortona
Tratto da: “Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale” 1837, Goffredo Casalis
Gavazzana
Il toponimo “Gavazzana” è l’agglutinazione di due vocaboli liguri arcaici “gaba” (altura) e “san” (luogo) e vale, appunto, “paese sulla collina”. La prima notizia certa sul borgo risale all’anno 1242. Nel 1655 l’antica chiesa di Santa Maria di Castiglione, allora esistente sul declivio occidentale del colle ed oggetto di grande venerazione popolare, è depredata dalle soldatesche del duca di Modena Francesco d’Este. Gavazzana fu un possedimento dei primati di Tortona fino al 1784, l’anno in cui, con tutto il Vescovato, passò ai domini dei Savoia. Il 18 giugno 1799 subì il saccheggio dei militari transalpini del generale Moreau, alla fine del quale si contarono tre vittime in strada. Nel maggio del 1859, durante la seconda guerra di indipendenza,vi si attestarono le truppe francesi in attesa di misurarsi con gli austriaci: lo scontro avverrà invece, poco dopo, a Montebello. Nel 1929 Gavazzana divenne una frazione di Cassano Spinola; ritornò comune autonomo nel 1948 – (da “Storia di Gavazzana” di Gian Carlo Vaccari, 1995).
Da vedere:
Belvedere San Martino – Attornia la chiesa parrocchiale con belle piantumazioni e accenni di giardino all’italiana; nelle giornate serene consente una vista spettacolare sulla pianura alessandrina fino alla maestosa cerchia delle Alpi.
Chiesa parrocchiale di San Martino – Costruita in forme pseudoromaniche nel 1867 da Giulio Leale (autore del palazzo municipale e della parrocchiale di Cassano Spinola, nonché della chiesa del seminario di Stazzano), nel 1898 fu dotata di un concerto di cinque campane premiato con medaglia d’argento alla Mostra d’arte sacra di Torino ed inaugurato dal celebre compositore di musica sacra, don Lorenzo Perosi.
Cantine di Casa Sterpi – Struttura secentesca, ricca di suggestione, sede dell’associazione musicale Gavazzana-blues e luogo di convegni ed esposizioni.
Centro storico – Il paese fa parte dell'”Associazione nazionale dei Borghi dipinti”. Lungo la via principale che lo attraversa si possono ammirare i vari murali affrescati da numerosi artisti a partire dal 1989: i più recenti sono stati eseguiti da allievi dell’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Sant’Agata Fossili
Sorto come abitato intorno a una cappella dedicata alla santa da cui prese il nome, è storicamente rimasto in disparte rispetto al più noto Podigliano o Pugliano, oggi frazione del comune. Nel codice diplomatico dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio negli anni 863-883 è citata tra le proprietà una cappella dedicata a Sant’Agata anche se non è dimostrabile con certezza che sia identificabile con l’attuale chiesa.
Podigliano, territorio del vescovo di Tortona, fu la prima capitale del Vescovato. Si hanno comunque notizie più circostanziate della piccola cappella di Sant’Agata solo nel secolo XIII, quando cominciarono a concentrarsi attorno ad essa un certo numero di insediamenti, e al 1277 risale la prima menzione del paese di Sant’Agata.
Nel 1284 era curia e divenne anche comune prima del 1311. Ulteriori notizie storiche sul paese ci informano poi che ai tempi delle fazioni seguiva la parte ghibellina, nel 1359 il podestà di Tortona sospese per sei mesi le condanne pronunciate contro gli abitanti di Sant’Agata, che nel frattempo dovettero pagare una cauzione di 1000 fiorini d’oro. Nel 1407 il paese fu infeudato ad Antonio Rampini, dipendendo dalla curia di Podiliano. Il vescovo Barbavara (1435-1451) a causa della sterilità del terreno ottenne dai Visconti esenzioni da molte tasse.
L’antica cappella, volta a oriente, fu eretta parrocchia nel 1575 (primo parroco fu Mons. Andrea Giacobone, patrizio milanese, morto a Sant’Agata nel 1580); nel 1703 la chiesa fu elevata al grado di pieve ed il rettore ebbe perciò il titolo di arciprete: in tale anno la parrocchia contava 670 anime distribuite tra Sant’Agata, Podigliano e Torre Sterpi. La chiesa fu poi totalmente restaurata e decorata nel 1905-1906 dal Gambini e la facciata fu radicalmente modificata nel 1921; la chiesa è intitolata a Sant’Agata, che si festeggia il giorno 5 febbraio.
A partire dalla seconda metà del secolo XIX, soprattutto per l’impulso dell’arciprete Corazza, si sviluppò la coltivazione della vite. L’aggiunta dello specificativo “Fossili” lo ebbe nel 1871 a causa dei molti fossili trovati nei terreni circostanti.