Angelo Fausto Coppi, ma tutti lo chiamano Faustino. Nasce a Castellania, in cima a una collina, alle spalle di Tortona, il 15 settembre 1919. Il papà, Domenico, ha un campo di sei ettari, la mamma, Angiolina, tiene casa e figli, i figli sono Livio, maggiore, e Serse, minore, e le due sorelle Dina e Maria. Le bambine badano ai tacchini e alle oche, i bambini lavorano la terra. Papà Domenico arrotonda i guadagni della terra facendo il sensale dei vini delle colline.
A Castellania c’è la scuola elementare: una sola classe, tutti insieme, dai più piccoli ai più grandi, compresi quelli che ripetono gli anni per ritardare il lavoro, tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi, anno dopo anno, nei campi. Faustino è magro, lungo, pelle e ossa. Ha lo sterno fuori: il petto di pollo, scherzano i fratelli. Ha lo sguardo triste, il naso lungo e affilato, una resistenza insospettabile. Ma appena possibile, il lavoro con la vanga e l’aratro gli viene risparmiato: diventa garzone di una salumeria, prepara pacchetti e ogni tanto salta sulla bicicletta per fare delle consegne a domicilio. Sono gli anni di Costante Girardengo e Alfredo Binda, e li vicino c’è Novi Ligure, la cittadina di Girardengo e del suo massaggiatore Biagio Cavanna. è così che Fausto Coppi comincia a sognare, a occhi aperti, a pedali. La sua prima bici è scassata, da viaggio, con il manubrione e senza cambio. Eppure nessuno gli sta dietro. La sua seconda bici è una Maino, da corsa, con il manubrio all’ingiù. Luigi Malabrocca, futura maglia nera, cioè ultimo in classifica nei giri d’Italia in cui Coppi trionferà, lo ricorda alla partenza di una delle sue prime corse: “Del ciclista non ha niente, una camicia malandata e braghe svolazzanti, fissate alle caviglie dalle mollette delle lavandaie. ‘Se questo riesce a finire una corsa – pensa Malabrocca – io vinco il Giro d’Italia’ ”.
Invece, corsa dopo corsa, Fausto Coppi acquista quella sicurezza che, lontano dalla bicicletta, sembra smarrire, o non possedere. La sua prima vittoria è nella Castelletto d’Orba-Alessandria. Stacca tutti, vince per distacco, come premio riceve un orologio a pendola. Finchè Cavanna, il massaggiatore di Girardengo, gli insegna l’arte del ciclismo. E finchè Eberardo Pavesi, il direttore sportivo della Legnano, lo ingaggia come professionista, 700 lire al mese per fare il gregario a – chi l’avrebbe mai sospettato? – Gino Bartali. E finchè, da gregario di Bartali, Coppi vince il Giro d’Italia 1940.
Tratto da “UNA NARRAZIONE EPICA” di Marco Pastonesi
nel “Il nostro Coppi. Il Campionissimo nel ricordo dei figli Marina e Fausto.”
Album della Stanza, Volume VI – © 2010 Fondazione C.R. Tortona
Dieci giugno 1949, diciassettesima e penultima tappa del trentaduesimo Giro d’Italia: da Cuneo a Pinerolo, 254 chilometri con cinque colli da scalare e precipitare: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere. La maglia rosa è sulle spalle di Adolfo Leoni, un velocista. Dietro di lui c’è Fausto Coppi. Gino Bartali è staccato, condannato dalle Dolomiti. A Coppi basta controllare la corsa, perché Leoni, su quelle pendenze, non può aggrapparsi neanche alla speranza. Prima della partenza, Giovanni Tragella, direttore sportivo della Bianchi, chiede a Coppi che cosa debba preparare peri il rifornimento dei gregari. Coppi gli risponde: «Pane, salame e lanternino». Pane e salame, d’accordo, si capisce. Ma il lanternino? Il lanternino è quello che si mette dietro ai carri. è un modo di dire: significa che i gregari arriveranno tardi, di notte.
Pronti via, tutti in gruppo, davanti tira Sandrino Carrea, il più fidato gregario di Coppi, il più forte, il più duro, un’autentica forza della natura. Nessuno lo sa, nessuno se ne rende conto, ma Carrea è come una miccia lunga una cinquantina di chilometri: e la miccia è accesa. La bomba scoppia ai piedi della Maddalena. Fausto sente la catena che non scorre, che non canta. Dice a Carrea: «Fermati a prendere l’olio». Carrea ubbidisce, si ferma, prende l’olio, cerca di metterlo sulla catena di Coppi stando sui pedali, ma è troppo rischioso. E allora Coppi decide di fermarsi. Un attimo, non di più. Ma è in quell’attimo che scoppia la bomba. La bomba è Primo Volpi, un piccolo irriducibile scalatore toscano della Valle d’Orcia. Dietro di lui, Bartali. Come se abbiano stretto un patto di intesa, o di alleanza, o di complicità. Ma Coppi è già lì, li raggiunge, li affianca, li supera, li stacca. Va su con il suo passo, ma è un passo che nessuno riesce a tenere, che nessuno riesce neanche a immaginare di tenere. Nella poltiglia della Maddalena, un calvario in terra battuta e infangata, Coppi va come una moto. Vola. Pierre Chany, giornalista dell’«Equipe», racconta: «Lo accompagnai sino a un paesino francese, mi pare Barcellonette. Lo lasciai andare. Entrai in una trattoria. Ordinai un pasto completo, dagli antipasti al caffè. Mangiai con i tempi da buongustaio. Fumai una sigaretta. Chiesi il conto. Pagai. Uscii. Stava passando il sesto».
All’arrivo Coppi precede Bartali di 11 minuti e 52 secondi. Il Giro è suo.
Angelo Fausto Coppi, ma tutti lo chiamano Faustino. Nasce a Castellania, in cima a una collina, alle spalle di Tortona, il 15 settembre 1919. Il papà, Domenico, ha un campo di sei ettari, la mamma, Angiolina, tiene casa e figli, i figli sono Livio, maggiore, e Serse, minore, e le due sorelle Dina e Maria. Le bambine badano ai tacchini e alle oche, i bambini lavorano la terra. Papà Domenico arrotonda i guadagni della terra facendo il sensale dei vini delle colline. A Castellania c’è la scuola elementare: una sola classe, tutti insieme, dai più piccoli ai più grandi, compresi quelli che ripetono gli anni per ritardare il lavoro, tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi, anno dopo anno, nei campi. Faustino è magro, lungo, pelle e ossa. Ha lo sterno fuori: il petto di pollo, scherzano i fratelli. Ha lo sguardo triste, il naso lungo e affilato, una resistenza insospettabile. Ma appena possibile, il lavoro con la vanga e l’aratro gli viene risparmiato: diventa garzone di una salumeria, prepara pacchetti e ogni tanto salta sulla bicicletta per fare delle consegne a domicilio. Sono gli anni di Costante Girardengo e Alfredo Binda, e li vicino c’è Novi Ligure, la cittadina di Girardengo e del suo massaggiatore Biagio Cavanna. è così che Fausto Coppi comincia a sognare, a occhi aperti, a pedali. La sua prima bici è scassata, da viaggio, con il manubrione e senza cambio. Eppure nessuno gli sta dietro. La sua seconda bici è una Maino, da corsa, con il manubrio all’ingiù. Luigi Malabrocca, futura maglia nera, cioè ultimo in classifica nei giri d’Italia in cui Coppi trionferà, lo ricorda alla partenza di una delle sue prime corse: “Del ciclista non ha niente, una camicia malandata e braghe svolazzanti, fissate alle caviglie dalle mollette delle lavandaie. ‘Se questo riesce a finire una corsa – pensa Malabrocca – io vinco il Giro d’Italia’ ”. Invece, corsa dopo corsa, Fausto Coppi acquista quella sicurezza che, lontano dalla bicicletta, sembra smarrire, o non possedere. La sua prima vittoria è nella Castelletto d’Orba-Alessandria. Stacca tutti, vince per distacco, come premio riceve un orologio a pendola. Finché Cavanna, il massaggiatore di Girardengo, gli insegna l’arte del ciclismo. E finché Eberardo Pavesi, il direttore sportivo della Legnano, lo ingaggia come professionista, 700 lire al mese per fare il gregario a – chi l’avrebbe mai sospettato? – Gino Bartali.
E finché, da gregario di Bartali, Coppi vince il Giro d’Italia 1940.
Quello del 1940 è l’ultimo Giro d’Italia prima della seconda guerra mondiale. Fausto Coppi fa appena in tempo a conquistarlo, poi viene chiamato alle armi. Ha l’autorizzazione di continuare ad allenarsi e correre. Ma si corre poco o niente. Nel 1942, convinto da un superpremio proposto dalla Legnano, 25 mila lire, una enormità per quei tempi, Coppi tenta il record mondiale dell’ora. La preparazione è approssimativa: pedala come portaordini del 38esimo Fanteria, più nei rari giorni di permesso: 20, 25, 30 chilometri per ciascuna uscita, in pianura, tirati al massimo.
Il tentativo viene fissato per il 7 novembre 1942. Ma qualche giorno prima la situazione politica precipita: il generale inglese Montgomery scatena la controffensiva nel nord dell’Africa, Milano viene bombardata dal cielo da 74 Lancaster, con 82 tonnellate di bombe incendiarie, 15 blockbusters, cioè superbombe da 4 mila libbre, e 57 bombe da mille libbre. Totale: 171 morti, 441 case distrutte, 330 incendi. Intanto Coppi rifinisce il suo allenamento sulle strade di casa, poi, quel 7 novembre 1942, sempre in bici, parte da Castellania e giunge al Vigorelli, e al Vigorelli, così com’è, cioè con la maglia da allenamento, che ha due tasche davanti e tre di dietro, e in testa un casco imbottito di feltro, comincia a girare. Ricorda Renzo Zanazzi, che sarebbe diventato gregario di Bartali alla Legnano e quindi avversario di Coppi: «Ci sistemiamo ai bordi della pista, io e mio fratello Valeriano. è sabato, sabato fascista, di mezza festa. Poca gente, un po’ di sole, niente vento. E grandissimi incoraggiamenti».
Il record dell’ora appartiene al francese Maurice Archambaud: 45 chilometri e 840 metri, corsi proprio sulla pista magica del Vigorelli di Milano, nel 1937. Coppi non è convinto di farcela, gli basterebbe avvicinare quel primato. Cavanna gli prepara una tabella per superare Archambaud di 35 metri. Coppi parte bene, ma a metà, cioè dopo mezz’ora, ha un ritardo di 61 metri. Poi si riprende, torna in parità, passa in vantaggio. Allo scoccare dell’ora chiude con 45 chilometri e 871 metri, e così batte il record del francese di 31 metri.
Il record di Coppi resisterà 13 anni e 7 mesi. A superarlo sarà prima un altro francese Jacques Anquetil, quindi un romagnolo, Ercole Baldini, ancora dilettante. Ma la prestazione di Coppi, preparata sotto i bombardamenti, rimane una delle sfide più sofferte, e non solo nel ciclismo.
Dopo il record dell’ora, non c’è più tempo per il ciclismo, né per altro. C’è solo la guerra. Nel marzo 1943 Coppi è imbarcato per la campagna d’Africa. Il 13 aprile è fra i prigionieri degli inglesi. In maggio viene trasferito in un campo di prigionia vicino ad Algeri. Poi più nessuna notizia: forse contrae la malaria. Solo il 3 febbraio 1945 Coppi torna in Italia, sbarca a Napoli, fa l’autista a Caserta. Un giorno bussa alla porta del giornale sportivo “Voce” di Napoli e al futuro direttore della “Gazzetta dello Sport”, Gino Palumbo, chiede una bicicletta. «Voglio tornare a correre». Il giornale lancia un annuncio: <Date una bicicletta a Coppi>. In una settimana arrivano tre risposte: a Coppi viene data la bici di un falegname di Grumo Nevano. Poi ottiene la maglia e bici della Nulli, un meccanico romano. Dopo la Liberazione, Coppi torna al Nord, torna a casa, torna da Bruna e la sposa, torna ad allenarsi, torna a correre e a vincere.
Il 1946 si apre con la Milano-Sanremo. Coppi è preparatissimo: d’inverno si allena sulla Riviera di ponente, conosce le strade, dissestate, conosce se stesso. Il pronti-via alle 7 e mezzo, è una giornata tiepida. Già a Binasco si avvantaggia una banda di avventurieri. Coppi li raggiunge e dà ritmo alla fuga. Tre minuti sul gruppo a Pavia, quasi sei a Voghera, dove resistono Coppi, il francese Lucien Teisseire e altri tre coraggiosi, dieci minuti di vantaggio a Ovada. Dietro, Bartali non sembra reagire, gli altri guardano Bartali. Davanti allunga Teisseire, solo Coppi reagisce. Anzi, a Masone, sulle prime rampe del Passo del Turchino, Fausto molla il francese, ma mancano ben 145 chilometri all’arrivo.
Coppi scollina il Turchino, si getta verso il mare, a Voltri ha già 5 minuti di vantaggio. Poi si lancia in una sorta di cronometro, lui contro il tempo, lui contro tutti, lui contro se stesso. La Via Aurelia è un corridoio di gente che lo acclama. A Sanremo Coppi precede Teisseire di 14 minuti, Ricci, Bartali e il gruppo dei migliori di 18 minuti e mezzo. è la prima delle sue tre vittorie nella Milano-Sanremo: 1946, appunto, poi 1948 e 1949. Coppi c’è, Coppi è tornato, ed è il Campionissimo. Solo Bartali cerca di minimizzare. Gino è in polemica con la Legnano: pretende gli stessi soldi che la Bianchi garantisce a Coppi, la Legnano gli risponde di no, allora lui minaccia di disinteressarsi di tutte le corse, a cominciare da quella Sanremo.
Vero o no, è nata la rivalità fra Bartali e Coppi. L’Italia si spacca in due.
Nel 1947 Coppi vince il Giro d’Italia, si laurea prima campione italiano poi mondiale nell’inseguimento, conquista il Gran Premio delle Nazioni, trionfa nel Giro di Lombardia, sempre con distacchi abissali. Nel 1948 Coppi si aggiudica la Sanremo e si ritira dal Giro d’Italia dopo aver dominato il tappone dolomitico per protestare contro presunte spinte in salita a Fiorenzo Magni, che consentono al futuro Leone delle Fiandre di mantenere la maglia rosa. La rivalità con Bartali arriva a limiti insopportabili: nel Mondiale di Valkenburg i due campioni si controllano, si annullano, si ritirano.
Il 1949 è un anno d’oro per il Campionissimo. Si presenta al Giro d’Italia con la vittoria della Sanremo. Il primo attacco lo fa sulle Dolomiti. Nella Bassano-Bolzano, 237 chilometri con il Rolle, il Pordoi, il Campolongo e il Gardena, Coppi stacca tutti, pedala da solo per 92 chilometri e arriva a Bolzano con quasi 7 minuti su Leoni, Bartali e Astrua. Poi, nella Cuneo-Pinerolo, appiattisce le Alpi e scava un divario storico fra sé e tutti gli altri, Bartali compreso. Ma questa è solo la prima parte della stagione. La seconda si apre con il Tour de France: Coppi vi partecipa per la prima volta. La quinta tappa è drammatica: Il Campionissimo va in fuga, si arrota con un francese, è costretto a fermarsi e ad attendere la macchina del direttore sportivo, ma la macchina tarda a sopraggiungere, e lui vuole ritirarsi. Sospetta che Alfredo Binda, commissario tecnico delle nazionali italiane, voglia favorire Bartali.
Coppi arriva al traguardo con 18 minuti e 40 secondi di ritardo, in classifica è staccato di oltre 36 minuti. Ma giorno dopo giorno Fausto recupera morale e minuti. Prima nei 92 chilometri della cronometro di La Rochelle, poi sui Pirenei, quindi sulle Alpi. In classifica Bartali precede Coppi, e Coppi non attacca. Nella tappa che va da Briançon ad Aosta, Bartali e Coppi si trovano, da soli, in testa alla corsa. A una cinquantina di chilometri dal traguardo, quando Gino fora, Fausto lo aspetta. Ma quando Gino, in una curva, cade, Fausto ottiene il “via libera” da Binda. Nei restanti 42 chilometri infligge quasi 5 minuti al dolorante Bartali e conquista la maglia gialla. E c’è ancora una cronometro, eterna: 137 chilometri.
Nella classifica generale Coppi precede Bartali di 10 minuti e 55 secondi. Per la prima volta nella storia del ciclismo, un corridore vince Giro e Tour nello stesso anno.
La seconda doppietta, Giro d’Italia-Tour de France, arriva nel 1952. Al Giro Coppi è in maglia rosa già prima di affrontare le Dolomiti. In un tappone di 276 chilometri, da Venezia a Bolzano, con i passi del Falzarego, del Pordoi e del Sella, Fausto stacca tutti, compie un volo solitario di 80 chilometri e rifila, ai primi inseguitori, che sono Bartali e Magni, oltre 5 minuti di distacco. Al Tour sfila la maglia gialla dalle spalle del fedele gregario Carrea nel tappone da Losanna all’Alpe d’Huez: 266 chilometri in quasi 9 ore. Ma non si accontenta: vincerà altre tre tappe, tutte per distacco, per un totale di cinque, più la classifica finale del gran premio della montagna. I distacchi finali sono epocali, umilianti se a infliggerli non fosse lui. La tappa che entra nella storia, la tappa immortalata dalla radiocronaca di Mario Ferretti (“Un uomo, un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco celeste: il suo nome è Fausto Coppi”) è quella che si conclude sul Sestriere. Orio Vergani, sul “Corriere della Sera”, scrive: “Donne pazze vogliono regalargli sacchetti pieni di gianduiotti, volano qua e là come fagiani involti di carta oleata che dovrebbero proteggere dei mazzi di fiori. Sconosciuti baciano, abbracciano, palpano, schiacciano, stritolano il loro Fausto. Non è un trionfo. è un’orgia. E poi la voce di Felix Levitan, dal podio del giudice d’arrivo, comincerà a intervalli lunghi la lettura dei tempi e l’ordine d’arrivo degli altri, lenta monotona e triste come l’elenco di una penosa serie di cambiali in protesto. Ruiz a quasi 8 minuti, Ockers a 10, Le Guilly a 10 e rotti, Bartali a quasi 11”.
Questo è il Coppi che abita nella letteratura, che brilla sull’altare, è il Coppi gracchiato dalle radio e dipinto sulle copertine della “Domenica del Corriere”, è il Coppi simbolo dell’Italia più povera che è stata costretta a emigrare, il simbolo dell’Italia che in Italia fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, il simbolo dell’Italia che ricostruisce e che sogna. Ma questo è anche il Coppi che nasconde, dietro il suo malinconico sorriso, la fatica di vivere: la morte del fratello Serse, quattro anni meno di lui, suo gregario, suo confidente, gli lascia una cicatrice che non si rimargina più.
Si conoscono nel 1951, all’ospedale di Trento, dove Coppi viene ricoverato dopo la caduta di Primolano, durante il Giro d’Italia. Certi sguardi non si dimenticano più, rimangono nel sangue.
Si rivedono un anno dopo, nel 1952, alla Tre Valli Varesine. A presentarglielo è il marito, Enrico Locatelli, medico, tifosissimo. Certi sguardi sono voluti, cercati, desiderati, e valgono come conferme. S’incontrano, si frequentano, si conoscono. Fausto, sposato con la Bruna, e con una figlia, Marina. Giulia, sposata con Locatelli, il medico, e con due figli. Fausto il simbolo. Giulia la moglie, la madre, una donna. Fausto il campione, anzi, il Campionissimo. Giulia la Dama Bianca, dal giorno in cui si presenta avvolta in un montgomery bianco. Fausto e Giulia si danno un appuntamento, come tanti, come tutti. Qualcosa nasce. E non è più solo un gioco di sguardi.
All’inizio è solo un pettegolezzo soffocato dai massaggiatori e dai gregari. Le prime foto compaiono durante il Tour de France del 1953, che Coppi non corre. Fausto le dice “ ti aspetto a Tortona, andiamo in Francia”, Briançon, Izoard, come due tifosi, come due amanti. Poi è amore. Amore vero, cioè amore pazzo, amore folle, amore cieco, amore a dispetto di modi di pensare e di vivere ancorati agli anni Cinquanta. Fausto e Giulia hanno 20 anni di vantaggio sul gruppo, che stavolta è la società civile, con la sua morale e le sue leggi.
è uno scandalo. Nel 1954 Coppi e la Dama Bianca vivono insieme, nella Villa Carla, sulla strada che da Novi porta a Serravalle. La notte fra il 25 e il 26 agosto Locatelli e i carabinieri irrompono nella Villa Carla per constatare il flagrante adulterio. Ci sono, ma non insieme, non nella stessa stanza, non nello stesso letto.
Due settimane dopo, mentre Coppi è in Belgio, Giulia viene interrogata ad Alessandria, quindi portata in carcere, infine costretta al domicilio coatto ad Ancona. Nel marzo 1955 il tribunale di Alessandria condanna Coppi a due mesi di detenzione e Giulia a tre mesi per adulterio, anche se per tutti e due c’è il beneficio della condizionale. Nel maggio 1955 nasce Faustino. è una nuova famiglia.
Poi si dirà che Coppi non andasse più d’accordo con Giulia, si dirà che Coppi si fosse pentito, si dirà che Coppi avesse confidato la volontà di tornare indietro. Si continuerà a dirlo, anche se lo scandalo ha lasciato il posto alla comprensione e alla storia.
Coppi ha vinto tutto: Giro e Tour, due volte nello stesso anno. Milano-Sanremo e Giro di Lombardia, la Parigi-Roubaix, campionati italiani e mondiali di inseguimento in pista, ha perfino stabilito il nuovo record dell’ora. Ma c’è una cosa che non ha ancora vinto: il campionato mondiale su strada. Quello del 1953 si disputa a Lugano, in Svizzera, su un circuito non difficile, che però contempla una salita. Anche la salita, si chiama Crespera, non è difficile, ma ripetuta 20 volte può far esplodere il gruppo e scegliere il migliore. L’incendio divampa al dodicesimo passaggio. è appena stata riassorbita una fuga a due, il lussemburghese Charly Gaul e il piemontese Giancarlo Astrua. Lì, al culmine della Crespera, Coppi scatta. Una volta, poi una seconda. Bastano e avanzano. Il gruppo si riduce a un drappello, del drappello sopravvive solo un belga, German Derycke. Che s’incolla alla ruota del Campionissimo e la molla solo a 10 chilometri dal traguardo, proprio sull’ultimo passaggio sulla Crespera, nel punto i cui un tornante si fa più duro, e la strada s’impenna sotto le ruote. Il belga è stremato. In quei 10 chilometri che lo separano dal traguardo accumula addirittura 6 minuti e 16 secondi: una enormità. Intanto Coppi vola su Lugano e completa la sua collezione di titoli e allori. E nel momento in cui Fausto indossa la maglia arcobaleno di campione del mondo, sul palco delle premiazioni c’è anche lei, Giulia Occhini, la Dama Bianca.
A questo punto della storia, Fausto Coppi diventa il corridore numero 1 nella storia del ciclismo. Forse per sempre. C’è che otterrà più vittorie, c’è chi vanterà più titoli, da Eddy Merckx a Lance Armstrong. Ma nessuno, mai, porterà la bicicletta così vicina al paradiso. Se smettesse in questo istante, sul podio iridato di Lugano, a 34 anni, Coppi concluderebbe la sua carriera come se il traguardo fosse segnato in cima a un colle. Invece no, Coppi va avanti, forse perché solo in bici sta bene, solo in bici è libero, è se stesso. Coppi va avanti e qui comincia la discesa.
Il tramonto di Fausto Coppi è così lento da sembrare eterno. Dove le forze lo tradiscono, lo soccorre la classe. Dove le energie gli mancano, lo conforta l’esperienza. Dove il fiato e i muscoli non arrivano, lo spingono l’orgoglio e l’anima. Il suo corpo è di una principesca fragilità: come cade, si spezza, si sposta, si frantuma. E ogni volta il recupero appare più arduo, più improbabile. Ed è proprio per questo che ogni nuovo sussulto diventa un miracolo.
Giro di Lombardia 1956. è la corsa che chiude la stagione, ma è anche la corsa che esalta la fantasia, il coraggio e le energie del Campionissimo. E a memoria di suiveur, non c’è stata una volta in cui Coppi non sa scattato su quei 10 chilometri, con pendenze fino al 18 per cento, del Ghisallo. Su quei tornanti secchi e cattivi, Coppi dimentica il corpo minato da una carriera esasperata e da un certificato anagrafico implacabile: ha 37 anni. E si vedono. Coppi dimentica tutto e scatta. Magni, Bobet, Van Looy, Poblet e Darrigade scivolano indietro. Solo Diego Ronchini gli rimane a ruota: indossa la stessa maglia biancoceleste che Coppi ha esaltato e reso leggendaria, e non tira un metro, forse per paura, forse per rispetto, forse per obbedire a un direttore sportivo troppo ligio ai compiti e alle tattiche. Coppi davanti, Ronchini dietro, e il gruppo dei migliori che lascia fare, quasi per un ultimo omaggio alla storia del ciclismo. Ma, all’improvviso, la storia cambia direzione. Succede che Magni venga sfiorato da una macchina al seguito, sulla macchina c’è la Dama Bianca, e la Dama Bianca indirizza un gestaccio proprio a Magni. Il Leone delle Fiandre non ci crede, poi, quando è costretto a crederci, sfoga tutta la sua ira sui pedali, e comincia a tirare, alla morte. Coppi e Ronchini vengono ripresi a Milano, sul ponte della Ghisolfa, a poche centinaia di metri dal traguardo, fissato nel Vigorelli. Ma Coppi non molla, fa la volata, sembra poter vincere, e invece viene preceduto di un soffio dal francese Darrigade. Il Lombardia 1956 poteva essere il suo ultimo trionfo. Si trasforma nell’ultima beffa del destino. E, davanti a tutti, non riesce a trattenere le lacrime. Coppi piange. Nessuno ha mai visto Coppi piangere per una vittoria o per una sconfitta. Nessuno.
Passano gli anni. Nel 1957 Coppi va per i 38. Al circuito di Sassari cade e si frattura il femore. Torna alle corse alla fine della stagione, prepara il Trofeo Baracchi insieme con Ercole Baldini e con un finale fortissimo se lo aggiudicano per soli 5 secondi. A Gianni Brera Coppi confessa: “ Mai fatto tanta fatica in vita mia”. Nel 1958 conquista l’unica Sei Giorni della carriera, a Buenos Aires, in coppia con l’argentino Batiz. E viene convocato in Nazionale per disputare il mondiale a Reims, in Francia. Scrivono che sia lui il regista del successo iridato di Baldini, ma la verità è un’altra: Coppi manda in avanscoperta il compagno non perché creda nella sua vittoria, ma perché è il modo migliore per non essere costretto a fare la corsa. Nel 1959 Coppi va per i 40 anni: debutta in Spagna, cade e si rompe due dita. In allenamento va addosso a un trattore. Partecipa alla Parigi-Roubaix alla Vuelta, ma senza onori. In autunno si riprende: è quarto nel Gran premio Campari a Lugano, a cronometro, è quinto nel Baracchi in coppia con Bobet. Orgoglioso, ma tramontato. Fiero, ma svuotato. Coppi decide che il 1960 sarà la sua ultima stagione da professionista. Correrà nella San Pellegrino, con Bartali direttore tecnico e un giovane, Romeo Venturelli, da lanciare come suo erede. Poi Coppi parte per alcuni circuiti in Africa, nell’Alto Volta. Lì contrae la malaria e quando torna a Castellania, si ammala. Debolezza estrema, febbre altissima. Diagnosi sbagliate. Con lui, in Africa, c’era anche Raphael Geminiani: anche lui si ammala di malaria, ma i medici la scoprono, e lo curano. I Geminiani chiamano casa Coppi, basta il chinino per salvare la pelle, ma la telefonata viene trascurata. O forse il corpo del Campionissimo, sfruttato, abusato, spremuto, senza le difese indispensabili per reagire.
Ettore Milano, l’angelo custode di Coppi, gli fa da gregario anche senza bici. Il 31 dicembre 1959 lo va a trovare a casa, il 1° gennaio 1960 lo accompagna nell’Ospedale di Tortona, poi va e viene, e la notte la passa accanto a lui. “Ettore – gli dice Coppi alle 3 di mattina – fammi un piacere, dammi un pò d’aria”. Milano racconta: “Cambio la bombola dell’ossigeno e apro il rubinetto. è il suo ultimo respiro”. è il 2 gennaio, Castellania è imbiancata di neve. Come scrive Orio Vergani, “l’airone chiude le ali”. Due giorni dopo il funerale: 50 mila persone accompagnano Coppi al cimitero di San Biagio. Stavolta per non farlo volare via.
“UNA NARRAZIONE EPICA” di Marco Pastonesi
nel “Il nostro Coppi. Il Campionissimo nel ricordo dei figli Marina e Fausto.”
Album della Stanza, Volume VI – © 2010 Fondazione C.R. Tortona
La maglia de LaMITICA del CENTENARIO-Fausto Coppi 1919/2019, creata per celebrare i 100 anni del Campionissimo Fausto Coppi ricorda, attraverso i colori delle mitiche maglie, anche tutte le squadre ciclistiche in cui Fausto Coppi ha militato nella sua carriera da corridore professionista: Verde-Legnano, Arancio-Nulli, Celeste-Bianchi, Bianco-Carpano Coppi, sempre il Bianco e il tricolore nelle maniche-Tricofilina Coppi e naturalmente l’Iride del Campionato del Mondo. Tutta una mitica carriera sintetizzata in una maglia, prodotta da Pella Sportswear, da indossare durante le ciclostoriche -nel caso della versione vintage in lana- oppure da sfoggiare durante tutte le uscite in bicicletta “moderna”.
Maglia ciclismo in lana manica corta, vintage style, LaMitica del Centenario
Maglia ciclismo in Lycra, manica corta, LaMitica del Centenario